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La programmazione come arte
Pierre Lévy (da non confondere con Stephen Levy) è un filosofo francese che ha iniziato la sua carriera occupandosi del concetto di Intelletto unico nella metafisica araba medievale per poi passare a descrivere l'Intelligenza collettiva dei nostri tempi. Recentemente ha progettato un metalinguaggio, IEML che nelle sue intenzioni dovrebbe permettere sia di descrivere l'intelligenza collettiva che di produre oggetti in maniera automatica.
In mezzo, nel 1992, scrive uno strano libro ("La programmazione considerata nel novero delle belle arti") nel quale descrive il lavoro del programmatore come quello di un artista-artigiano.
In questo testo Lévy sostiene due tesi paradossali:
- che la programmazione va inserita a pieno titolo tra le altre “belle arti”
- che la scrittura di programmi (coding) è una parte della scrittura tout court
Quello che caratterizza la programmazione come arte non è l'aspetto estetico del suo prodotto (come si potrebbe pensare alla bellezza di un teorema matematico, all'equilibrio statico di una statua) ma la natura non metodica, artigianale, del suo processo.
Il termine stesso di “arte” è inteso da Lévy nell'accezione rinascimentale di sapere esperto non facilmente definibile e insegnabile.
E' un paradosso: se molti grandi informatici teorici sono concordi nel riconoscere alla propria disciplina un aspetto estetico, di solito lo fanno proprio negando la sua caratteristica di “arte” come opposto a “scienza esatta”.
Invece la natura artigianale, esperienziale, della programmazione emerge come una caratteristica specifica dell'opera dell'hacker, intesa come attività di bricolage digitale.
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Versione: 12/01/2022 - 19:23:37
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